Testo

Fundraiser o consulente di fundraising?

consulenza-fundraising

È terminata da poco la Masterclass organizzata dalla Scuola di Roma Fund-Raising.it e dedicata alla delicata funzione della consulenza in fundraising.

Il corso che ho avuto modo di tenere con nove persone fantastiche, oltre ad aver avuto un ottimo risultato didattico (a detta dei partecipanti) ci ha permesso di dare uno sguardo meno “ingessato” e più “sincero” alla grande sfida professionale e sociale che i consulenti di fundraising devono affrontare. Questo è stato possibile grazie anche e soprattutto ad una serie di momenti di incontro con dirigenti di organizzazioni non profit che si sono resi disponibili a condividere le opinioni e le aspettative che ciascuno ha rispetto all’altro.

Dalla tre giorni, intensissima ma molto interessante, sono emersi alcuni punti che potremmo chiamare falsi miti e pietre di inciampo che spesso il consulente di fundraising si trova di fronte e che deve evitare se vuole fare di questa professione un qualcosa che faccia la differenza nella sua vita e soprattutto in quella dei propri “assistiti”.

Consulenza in fundraising: i falsi miti

1Ho esperienza sul campo e conoscenze tecniche sul fundraising e questo basta. La consulenza viene intesa a volte come naturale esito dell’esperienza condotta in quanto “operario del fundraising” in un’organizzazione. Che l’esperienza e la conoscenza operativa di ciò di cui si parla siano importanti è fuori di dubbio, ma che la consulenza in fundraising non sia la medesima cosa di “raccogliere fondi” è altrettanto sicuro. Il consulente lavora sui fatti ma anche sui processi che portano ai fatti. E i processi riguardano quasi sempre management, comunicazione, sociologia dell’organizzazione e psicologia, educazione degli adulti, ecc. Manca qualcosa, quindi.

2Sostituirsi all’organizzazione e ai suoi fundraiser. Spesso guidati da un onesto impeto a “muovere la macchina del fundraising di un’organizzazione” ci si sostituisce ad essa ricoprendo il ruolo pratico di raccoglitore di fondi pur non essendo né socio, né volontario, né dipendente dell’organizzazione stessa e perdendo quindi il giusto distacco dalla realtà interna ad essa. Nulla di male, per carità. Ma in questo caso è meglio smettere di essere consulente e integrarsi nell’organizzazione.

3Non coinvolgere la dirigenza dell’organizzazione (spesso non vogliono coinvolgersi!) perché fanno perdere tempo o in quanto poco attenti al fundraising. In parte è un atteggiamento che i dirigenti assumono. Ma questo non deve portare ad aggirarli: il successo del fundraising dipende dal loro coinvolgimento e quindi questo è un obiettivo imprescindibile del consulente che deve perseguire con furbizia, pazienza e un po’ di comprensione per i dirigenti e i loro problemi.

4Innamorarsi troppo dell’organizzazione e della causa sociale (diventare militante). Al contrario disamorarsi di esse. Che si debba essere aperti a comprendere il valore della causa sociale dell’organizzazione assistita è senza dubbio necessario. Ma non è necessario per forza aderire alla causa (questo lo deve fare il militante!) cosa che peraltro fa perdere il grande vantaggio di avere un punto di vista appassionato – certo – ma distaccato ed esterno che aiuta lo spirito critico.

5Pensare di possedere per definizione tutte le conoscenze necessarie per affrontare un caso: sia quelle di fundraising sia quelle funzionali ad esso (comunicazione, pubbliche relazioni, management, ecc.) o a favorire l’innovazione organizzativa. Il consulente al contrario deve capire non solo i problemi di un’organizzazione ma anche le conoscenze e le competenze che sono necessarie a risolverli. E se non ce le ha deve sapere come fare ad acquisirle.

6Fare il solista, il one man show. Pensare di essere in grado di lavorare in totale autonomia. Il fundraising è questione complessa che peraltro si sviluppa in un contesto molto complesso. Pensare di avere tutte le conoscenze necessarie è impossibile. Peraltro il lavoro in totale autonomia esclude il confronto dei differenti punti di vista e approcci togliendo qualità alla consulenza. Insomma è affare di un gruppo di persone e non di un “faccio tutto io”.

7Nascondere la verità, far vedere che non ci sono problemi. Anche a fin di bene (un esito ottimo della consulenza, al contrario, è l’emergere chiaro di un problema e di un insuccesso). Insomma: il medico pietoso fa le piaghe puzzolenti. Spesso si individuano problemi “a monte” del fundraising, che ne impediscono lo sviluppo quali ad esempio poca chiarezza e forza dei progetti sociali, conflitti nella governance e tra questa e gli operatori, lo scarso orientamento a partnership o collaborazioni con reti sociali, la ritrosia ad investire in risorse umane ed economiche. Quello che paga (almeno alla lunga) sono invece l’onestà e la franchezza nel mettere davanti ai problemi l’organizzazione.

8Eccesso di standardizzazione nel lavoro consulenziale. Pensare che le consulenze possano essere fatte con il “copia e incolla” e che esiste un unico modello di fundraising (quello nostro) che funziona per tutte le organizzazioni.

2 rimedi per i rischi della consulenza in fundraising: atteggiamento maieutico e atteggiamento socratico

Rispetto a questi rischi professionali della consulenza nel fundraising ci sono due correttivi maestri: quello di assumere sempre un atteggiamento maieutico, ossia di aiutare l’organizzazione a partorire da sé le scelte e le azioni che sono necessarie a sostenerle, sapendo che un “parto” è sempre traumatico ma che produce sempre nuova vita e un atteggiamento socratico di “sapere di non sapere” ossia di avere una costante apertura verso la ricerca sia nella comprensione dei bisogni da risolvere sia nel modo per farlo.

Anche questo fa capire che il fundraising crescerà soprattutto grazie al fatto che le organizzazioni si metteranno in moto seriamente ma anche grazie all’azione di una generazione nuova di consulenti in grado di accompagnarle in questo difficile itinerario. Il che la dice lunga sulla “responsabilità sociale” del consulente in fundraising.