Ieri ho letto un bellissimo articolo su Redattore Sociale che parla di una campagna contro il bullismo e la violenza verbale.
La campagna Weapon of choice nasce con l’intento di creare una rappresentazione visiva dei danni emotivi che le parole possono causare. Al progetto hanno partecipato bambini, ragazzi, uomini e donne. A tutti loro è stato chiesto di scegliere, tra un elenco di parole, quale fosse la più offensiva. Una volta individuata, la parola è stata dipinta sul loro corpo e tradotta in una ferita vera e propria, rendendo visibile il dolore.
Immagini forti. Almeno per me.
Comunicazione e fundraising
Pensate, per i più piccoli la parola peggiore è “stupido”; agli adolescenti invece vengono rivolti insulti soprattutto a sfondo sessuale.
Il bello di questa campagna è che non vuole sensibilizzare solo contro il bullismo o la violenza. Sensibilizza all’uso corretto della comunicazione.
Ed è vero. Senza arrivare all’insulto estremo, spesso non ci rendiamo conto di quanto le parole creino la realtà, la nostra, e imprigionino quella degli altri.
Voi direte: dove vorresti arrivare?
Voglio calare come sempre il discorso nella nostra realtà, all’interno delle associazioni. A volte mi sorprendo di come alcune persone che magari si occupano di disabilità fisiche e mentali, di anziani o stranieri parlino dei loro beneficiari.
Al di là delle buone intenzioni di ciascuno, se io fossi un donatore, comincerei a selezionare le organizzazioni anche in base al linguaggio utilizzato. Perché le parole sono pensieri che poi diventano azioni.
Io personalmente odio la parola “integrazione”. È il termine più gettonato tra chi si occupa di disabili o stranieri. Secondo il vocabolario on line della Treccani, “integrazione” significa, in senso generico, il fatto di integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni.
“Integrazione” non è la parola più corretta, secondo me. Perché presuppone che uno dei due poli sia in difetto e debba fare di tutto per allinearsi con l’altro e viceversa. Questo, secondo me, significa non vedere l’altro per quello che è. Non c’è reale accettazione. Non c’è un reale rapporto di parità.
Io parlerei di “coesistenza”. Dove nessuno debba rinunciare a parti di sé o aggiungerne. Vedere l’altro per quello che è. Senza buonismo, e accettarlo.
E voi? Quali sono le parole che cambiereste?
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