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Fare fundraising con la pancia e con la testa

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In questo periodo è sui principali canali di comunicazione uno spot di raccolta fondi per combattere la fame in Africa in cui si vede la classica immagine del bambino africano con la pancia gonfia.

Io continuo a chiedermi: “Cui prodest?”. A chi giova questo tipo di comunicazione? Al beneficiario? Non credo. Mi sono immaginata il bambino della foto tra dieci anni… uscito da quella situazione drammatica, con un lavoro, un’istruzione, una famiglia e che per molte persone sarà sempre il bambino con la pancia gonfia, anche se lui è diventato altro.

Al fundraising? Anche qui non credo. Qualcuno potrà obiettare: “Però hanno raccolto moltissimi soldi”. Ottimo! E la relazione con il donatore? È di tipo emergenziale? Ovvero il donatore dà i soldi solo perché vede il bambino con la pancia gonfia? E questo lo rende un donatore costante?

Mi sono messa nei panni del donatore e ho pensato: “Se continuate a far vedere il bambino con la pancia gonfia la vostra azione forse non è così efficace”.

Forse questo tipo di comunicazione giova a chi vuole mantenere lo status quo. Per diversi motivi. Perché comunque è una fonte di lavoro per alcuni. Per altri invece è molto più comodo pensare che c’è chi sta peggio. E in questo caso la raccolta fondi ha il sapore dell’elemosina.

Lo so, lo so: qualcuno potrà obiettare che in Africa stanno veramente peggio di noi… Verissimo, ma per questo non possono avere dignità?

Il mio concetto di raccolta fondi è altro. Quattro anni fa ho lavorato per un’associazione che si occupa di autismo. Si erano appena affacciati al mondo del fundraising e sembravano essere inesperti. Io invece ero del tutto ignorante in materia di autismo. Per me una persona con autismo era lo stereotipo di Rain Man. Non comunicava, era bravissima a contare, ecc.

Sono stati bravissimi nel farmi conoscere cos’è questa sindrome, chi sono le persone che ne sono colpite, cosa possono o non possono fare. Ecco, loro per me sono i veri fundraiser. Fare fundraising e fare comunicazione significa cambiare lo status quo. Non mantenerlo. Significa fare cultura.

“Questo paese ha il culto della sofferenza ma non la cultura del dolore” (Barbara Garlaschelli).

Chiudo questo post facendovi vedere altre pance. È la campagna “La bellezza con (tro) la fibrosi cistica”.

Quando far vedere le pance serve davvero.

Ps. Vi consiglio anche di rileggervi quest’articolo di Barbara Bagli di tre anni fa…