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Fund raising e welfare sociale: la societa’ corre piu’ veloce del fund raising

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È di qualche giorno fa la notizia (segnalatami dal mio amico Andrea Caracciolo) che a seguito della mobilitazione dei genitori dei bambini che frequentano gli asili comunali di Modena, l’assessore all’istruzione ha deciso di abbandonare l’idea di dismettere la gestione degli asili e appaltarla a soggetti privati o cooperative e di dare vita ad una fondazione non profit che si occupi di gestirli, mantenendo gli stessi standard di quelli pubblici (leggi l’articolo).

Apparentemente sembra un fatto meramente amministrativo. Invece nasconde, a mio avviso, una tendenza molto forte a rivedere i modelli di gestione del bene pubblico dopo il fallimento del welfare state e del libero mercato, guardando al delicato rapporto tra soggetti coinvolti nei servizi pubblici e reperimento delle risorse. E un invito a rivedere il senso e la natura del fund raising (come ha invitato a fare B. Casadei di Assifero. Vedi oltre).

La creazione della fondazione, infatti, permetterebbe di accedere in modo diverso a risorse differenti (oltre quelle delle tasse, peraltro bloccate in modo drastico dal patto di stabilità sottoscritto dai comuni e che impone tagli indiscriminati alla spesa pubblica per il bene del pareggio di bilancio).

Pertanto con questo tipo di scelte il fund raising diventerebbe la strategia finanziaria principale per sostenere i servizi pubblici e in qualche modo assumerebbe un significato sociale, politico ed economico pari a quello delle tasse. Come dire: da strumento di marketing per il sociale a politica economica attraverso il quale la comunità si garantisce servizi e benessere sociale.

Fund raising come strumento di politica economica del Welfare Sociale

Questa è una bella svolta per il fund raising, che da sempre è stato trattato come una zeppa da mettere al sistema dell’economia pubblica e a quello del libero mercato laddove questi non sono in grado di occuparsi di importanti cause sociali e che invece adesso, zitto zitto, si proporrebbe come un nuovo strumento di governance del bene pubblico.

Entusiasmante! Per altro, io insieme ad altri avevamo sospettato già da tempo che questa era la vera portata sociale e politica del fund raising (si veda il mio manuale sul fund raising, la lectio magistralis tenuta ad ASVI e la recente Survey sul futuro del fundraising). Vedere queste notizie mi riempie il cuore di gioia per due ragioni:

  • La prima è che questo processo di cambiamento del senso del fund raising ci aiuta forse a liberarci dalla dimensione “markettara” del fund raising, che guarda al donatore come una specie di consumatore che noi dobbiamo portare verso i nostri prodotti, e ad accogliere una dimensione più politica, che conferisce al donatore l’identità di un attore primario nella governance delle cause sociali e del bene pubblico ed esprime un potere anche attraverso un controllo responsabile delle risorse (incluse le proprie).
  • La seconda è che ci avevamo visto giusto (lo so che è antipatico autocelebrarsi, ma per me la capacità di vedere il futuro è una grande sfida!).

Certo non basta fare una fondazione per compiere questo processo. Anzi, se questo si riassume nella mera invenzione di una istituzione non profit, si rischia di fare delle finte fondazioni come nel caso di alcune trasformazioni applicate ad enti lirici e altri enti analoghi, che hanno mantenuto la stessa governance e non hanno sfruttato il potere del fund raising.

Penso piuttosto a fondazioni di comunità (o altre forme analoghe), in cui chi dona soldi volontariamente partecipa alla gestione dei progetti finanziati sia come utente sia come erogatore di servizi. Insomma da donatore ad investitore sociale. Da “tifoso” delle cause sociali ad attore delle cause sociali. Lo abbiamo chiamato anche fund raising di comunità, scorgendone la presenza in varie forme: dalle fondazioni di comunità appunto, ad alcuni aspetti del crowdfunding, ad alcune forme moderne di mutuo aiuto (g.a.s.; forme di microcredito comunitario, ecc.).

I limiti di un approccio basato sul marketing

In questo senso, mi ritrovo molto con una delle critiche (costruttive) sull’attuale fund raising che Bernardino Casadei, segretario di Assifero, ha fatto presenti all’assemblea dell’Associazione Italiana Fundraiser, mettendo in mostra i limiti dell’approccio di marketing e il rischio che produca paradossi quali l’aumento dei costi, una sbagliata concorrenza tra le cause sociali e la minimizzazione del donatore rispetto al dono (inteso come incamerare soldi.

Casadei ha invitato a “riscoprire e promuovere il dono non come via per raccogliere fondi, ma come fine in sé, come principio in grado di fondare la nostra società e di permetterci di superare una crisi che è illusorio sperare di affrontare semplicemente migliorando l’efficienza del sistema. In questo modo è probabile che alla fine si raccoglieranno risorse probabilmente maggiori di quelle che è possibile attirare con le tecniche di marketing, perché si potrà così dare una risposta a quelle che sono le esigenze più profonde e vere della persona, esigenze che la società in cui viviamo non sempre è in grado di soddisfare”. Credo sia molto utile riascoltare il suo intervento.

Personalmente non la ritengo una critica. L’ho sempre pensata così durante tutta la mia carriera di fundraiser. E credo che sia urgente riscoprire quest’anima sociale, civile, politica (nel senso migliore del termine) del fund raising. Pena: un deperimento della nostra disciplina. Casi come quello della Fondazione per gli asili di Modena ci fanno capire che spesso la società è più innovativa e dinamica di quanto lo siamo noi professionisti.