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Raccolta fondi: che fine fara’ se la solidarieta’ e’ virtuale?

fundraising virtuale

Qualche giorno fa su Facebook una mia amica mi ha spedito un messaggio che recitava più o meno così:

“Ciao a tutte. Senza rispondere a questo messaggio mettete un cuore sulla vostra bacheca senza commento. Solo un cuore. Poi inviate questo messaggio a tutte le vostre amiche. Solo alle donne. E postate un cuore sulla bacheca della persona che vi ha inviato questo messaggio. Se qualcuno vi chiede perché avete tanti cuori in bacheca, non rispondete. Questo è solo per le donne, perché è la settimana per la ricerca sul cancro al seno: un piccolo gesto di solidarietà femminile. Grazie”.

A quel punto su Internet mi sono messa a cercare notizie sulla settimana per la ricerca sul cancro al seno pensando: “Forse mi è sfuggita”. Sono andata sui siti delle principali organizzazioni che si occupano del tema e non ho trovato nulla.

Ho pensato allora che questa fosse una campagna puramente simbolica senza nessun legame con una “azione”, fosse anche una raccolta di fondi.

E pensandoci, riflettendo sul senso di fastidio che provo ogni volta che ricevo messaggi di questo tipo sono andata a ritroso nella mia casella di posta e ho scoperto che non sono poche le campagne simboliche di questo tipo che circolano!

Gli ingredienti sono sempre gli stessi: un tema di largo consenso, un simbolo facile, qualche cuoricino, un braccialetto, una coccardina; insomma quello che vi pare oltre a una buona, vecchia, catena di Sant’Antonio o passaparola se vi sembra più dignitoso.

Insomma una sceneggiatura facile e ad effetto che però mette in secondo piano (ma anche in terzo, quarto…) il senso dell’operazione: per cosa lo si fa? Con quale obiettivo? Come? Perché?

Le uniche risposte possibili a queste domande sembrano riguardare la mera sfera individuale annullando quella sociale: fare un gesto che metta a posto la propria coscienza. Un gesto semplice, a buon mercato che non richiede sforzi né costi e anche poca riflessione e attivazione delle cellule neuronali.

Un gesto che ti permette di sentirti parte di un popolo, dalla parte giusta, di giocarti una parte di identità prendendo posizione. Un gesto che ti regala la sensazione di esserti “mobilitato”, di aver fatto qualcosa!

Dopo aver pensato un po’ alla questione e non avendo la possibilità di pigiare il tastino “Non mi piace” (si dovrebbe proporre a Facebook!) ho risposto al messaggio ricevuto facendo il bastian contrario (cosa che mi viene molto bene), affermando che questo tipo di campagne mi hanno scocciato, lasciano tutto sommato il tempo che trovano, sono un sedativo di massa (come direbbe Montalbano: “Ho fatto scarmazzo!”). Risultato: ho aperto un dibattito e ho perso qualche contatto.Ma va bene così!

Quando il campaigning è a buon mercato

Poi è partita un’altra riflessione: questo tipo di atteggiamento “spontaneo” (spontaneistico…) che viaggia sui social networks forse è un po’ figlio di un campaigning a buon mercato. Ho ritrovato molti cliché presenti nella campagne delle grandi organizzazioni o nei gesti dei vip testimonial di grandi campagne o la semplice intenzione di dimostrare quanto Internet mobiliti. Mobilitare, appunto. Il problema è proprio questo.

Vedo un grande rischio in tutto questo campaigning: mobilitare ad un gesto virtuale e non ad un’azione. La mobilitazione senza azione sociale e collettiva è una enorme e dorata bolla di sapone.

E se la solidarietà diventa virtuale cosa succede? Diventa la panacea di tutti i mali: peggio dell’oppio dei popoli!

Se in questo grande mobilitarsi a vuoto ci mettiamo il fund riasing, la donazione rischia di diventare il sostituto dell’azione sociale e il sedativo delle coscienze. Porterà tanti soldi, magari (ma non credo proprio). Di certo però non sarà una buona educazione per il donatore. Meglio ricordare allora che H. Rosso diceva che il fund raising è la nobile arte di insegnare a donare e non la mera raccolta di fondi.

La mia convinzione, forse dovuta alla mia età e alla mia formazione, è che la solidarietà e l’azione sociale non possano diventare in nessun modo virtuali e che milioni di “Mi piace” non valgono neanche la metà dell’azione sociale di 10 persone. L’azione sociale è impegno. Se mettiamo il fund raising nell’azione sociale concreta e non in quella virtuale avremmo forse meno followers, ma più donatori fedeli perché si assumono un impegno.

In fondo c’è da domandarsi che tipo di donatori vogliamo: i consumatori della domenica o i partner della nostra azione? E soprattutto: gli individui responsabili e consapevoli preferiscono il supermercato della solidarietà o nuove forme di azione sociale?