Il fundraising tra adrenalina, endorfine e buon senso

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È di qualche giorno fa l’articolo del Guardian, ripreso da Vita.it, circa gli aspetti critici del metodo dei dialogatori.

Nell’articolo compaiono due informazioni importanti.

La prima è che quello dei dialogatori, a dispetto di quello che si dice, non è un metodo molto produttivo dal punto di vista del fundraising. I dialogatori, “acchiappano” un donatore (il termine l’ho usato di proposito visto che la sceneggiatura che noi vediamo ai banchetti è proprio quella di una rete per acchiappare pesci) ma le loro reti e gli ami che usano (per continuare la metafora) sono deboli e i donatori dopo poco, scappano!

La valutazione di questa forma di fundraising andrebbe fatta anche in questi termini. È chiaro che probabilmente per una singola organizzazione che cerca di acquisire nuovi donatori quello che conta è il dato relativo ai donatori “acchiappati”. Se però adottiamo l’ottica dell’intero non profit e quindi dell’intero mercato dei donatori dovremmo domandarci se questa pratica – per come è stata attuata – non contribuisca in parte a far calare il numero dei donatori.

Peraltro ormai appare chiaro che non è del tutto vero che i donatori acquisiti con queste tecniche siano i più fedeli, visto che è stato calcolato che durano in media un anno. Come mai due anni fa dicevano invece che sono donatori tra i più fedeli?

Il secondo fatto importante che emerge dall’articolo riguarda il rapporto con il donatore. La Public Fundraising Regulatory Association, l’osservatorio britannico sul fundraising (PFRA) afferma che il solo fatto di chiedere una donazione per migliorare le condizioni di vita di qualcuno induce il senso di colpa se si rifiuta. Il senso di colpa che scatena adrenalina.

“Il rilascio di adrenalina è stimolato da forti emozioni, in particolare la paura, e in generale in quelle situazioni dove sia prevedibile la necessità di una fuga, un combattimento o comunque un’aumentata attività fisica”.

Questa è la spiegazione di Wikipedia e penso che basti a capire che non è questo quello che dobbiamo provocare nei nostri donatori.

La ricerca di cui parla Vita continua dicendo che quello di cui abbiamo bisogno per coinvolgere i nostri donatori sono le endorfine che si producono quando c’è divertimento ed è stimolata la nostra curiosità. Vi consiglio caldamente di andare a vedere l’esperimento delle scale a pianoforte di cui si parla nell’articolo.

Sicuramente l’approccio neurologico al fundraising è interessante ma stiamo attenti a non farne l’unica chiave e di lettura perché produce effetti paradossali.

Perché? Semplice! La risposta sta proprio nelle parole dell’esperto che dice, per l’appunto che “le endorfine abbassano le nostre difese personali”. Quindi il paradigma all’interno del quale ci si muove è sempre lo stesso: io donatore non voglio donare e sono anche un po’ brutto e cattivo, per cui tu che devi raccogliere fondi mi devi fregare in qualche modo con qualche trucchetto. Che il sistema funzioni pare sia vero. Si tratta della Fun theory, adottata anche da molte aziende che hanno riscontrato ottimi risultati. Credo, però, vada mantenuta una certa differenza tra vendere automobili o contratti telefonici e chiedere sostegno per una causa sociale.

La verità senza stereotipi: asso nella manica per il fundraising

Nell’articolo di Vita si cita l’esempio dell’Ong americana Mama Hope, la quale ha lanciato una campagna basata sullo slogan “Stop the Pity” che veicola un’immagine non stereotipata dell’Africa. Il successo della campagna credo vada attribuito non alle endorfine (almeno non solo) , ma proprio al fatto che finalmente qualcuno abbia detto la verità sull’Africa: ossia che non è un continente allo sbando e in preda a ladroni, carestie e guerra. Ma un continente in cui milioni di persone lottano per lo sviluppo. Come noi per altro. Anche contro immagini stereotipate prodotte, guardacaso, soprattutto da altre Ong.

L’unico donatore che rimane fedele è quello che sposa la causa. E la causa si sposa con endorfine, adrenalina e tutte le altre sostanze prodotte. Si sposa con il cuore (le emozioni) e con il cervello (il ragionamento) per usare un altro binomio di recente chiamato in causa quando si parla di fundraising.

Per concludere: magari il mondo fosse tutto bianco o tutto nero! Sarebbe facile scegliere il colore. Sarebbe una semplificazione molto utile, ma che tristezza! Per fortuna, l’uomo è fatto a colori e sono tutti molto complessi, soprattutto se questo uomo è intelligente come un donatore. E questo impone complessità e intelligenza anche in chi chiede i soldi!