Francesco Fortinguerra (che ringrazio) mi ha fatto scoprire, attraverso una segnalazione su Facebook, questo articolo di cronaca sul quale credo sia necessario dire qualcosa.
E dirlo fuori dai denti e in modo politicamente scorretto.
L’articolo è apparso su La Repubblica, edizione di Milano, del 19 dicembre 2011 e lo si può leggere qui.
Si tratta della storia di uno dei tanti precari ingaggiati da società di marketing (spesso tramite agenzie interinali) oppure, in alcuni casi, arruolati anche direttamente da alcune organizzazioni non profit per “vendere” (ma che ce le metto a fare le virgolette!?) adozioni a distanza, donazioni pianificate e quant’altro ci si riesce ad inventare per “agguantare la preda” e “vendergli una adozione”.
Vi invito a leggerla questa storia. Il caso trattato riguarda la Ong World Vision e la sua campagna di adozioni gestita da una grande multinazionale del field marketing. È una storia raccontata dal punto di vista di un giovane che cerca lavoro dequalificato pur avendo qualifiche da spendere meglio. Non parla della ONG, della sua causa e dei suoi progetti. Ma credo che tra le righe si possa leggere molto della filosofia di fund raising che alcune organizzazioni con una cultura commerciale un po’ spinta stanno adottando in modo massiccio.
Giovani precari e dialogo diretto
Io nella mia esperienza di cittadino comune ho avuto modo di incontrare casi analoghi facenti riferimento a Greenpeace, Save the Children, UNHCR e una Fondazione che si occupa di bambini in Italia di cui non ricordo bene il nome.
In un caso sono stato abbordato con una frase del tipo: “Che c’hai un euro per Greenpeace?”.
In un altro caso sono stato pedinato da due ragazze che “vendevano” adesioni per Save the Children e che molto simpaticamente (lo dico sul serio) mi hanno chiesto “ma non ti sei fermato perché ti abbiamo fatto paura?”. Poi visto che mi ero fermato davanti alla vetrina di un’agenzia immobiliare, mi hanno avvicinato nuovamente dicendomi “ma lo sai che noi qui dentro conosciamo qualcuno? Se ti serve una mano posso presentarti a loro”. Erano molto “fighette”, simpatiche, anche carine. Diciamo che hanno scelto uno stile tra “l’acchiappesco” (come direbbe il grande Gigi Proietti impersonando il cantante da night), l’amichevole e il casinista. Uno stile sicuramente non professionale!
In un altro caso, mi sono venuti a casa (prima UNHCR e poi Save the Children). Non sono stati invasivi, grazie al cielo, come i precedenti, ma hanno cominciato a farmi una mezza filippica sulle condizioni di vita dei bambini africani piuttosto che dei rifugiati presupponendo che fossi un insensibile alle cause (almeno potevano leggere la targhetta della porta che dice che mi occupo di fund raising!). Una ramanzina di un semplicismo disarmante e per giunta fatta, senza rendersene conto in quanto non erano assolutamente interessati ad ascoltare e a dialogare con me, ad una persona che ne sapeva molto più di loro in materia. Se non avessi conosciuto per fatti miei quelle organizzazioni, giuro che ne avrei avuto un’opinione pessima.
Fundraising e logica commerciale
Ma il vero punto è che La Repubblica ci ha fatto un bel pezzo su. Il titolo è “Le mie tre giornate da precario a vendere beneficenza in strada. Il cronista “assunto” da un’agenzia interinale che lavora per una grande onlus umanitaria. Per lui un contratto-beffa da 320 euro al mese. Così si vendono le adozioni a distanza”.
Ora qualche milione di lettori giustamente si sta facendo un’idea abbastanza circostanziata di quali siano le caratteristiche del “circo” o del “supermercato” del fund raising in questo tempo di crisi. Vendere a buon mercato, acchiappare a tutti i costi, colpire con bambini che fanno tanto la lacrimuccia facile, puntare sul senso di colpa o sul fatto che la cosa va di moda… Ma forse sarebbe meglio comunicargli la mission dell’organizzazione? Per l’amor di Dio! E a che serve? Oppure cercare di dialogare con lui e quindi trattarlo come donatore, come interlocutore? Santo cielo, no! E quante adozioni potrai fare al giorno se devo dare spago al passante! Bisogna farne almeno 5 al giorno, altrimenti: niente paga!
Certamente ogni organizzazione non profit che ho citato potrebbe tranquillamente dimostrarmi che ha una policy rigidissima sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti dei donatori. E io ci credo. Ma non voglio soffermarmi sul dettaglio. Sono il sistema e la strategia che mi preoccupano.
Voglio dire che di questo passo il fund raising, la sua portata sociale e politica che in qualche modo, proprio in tempo di crisi, potrebbe essere rivoluzionaria, non può che svilirsi e la sua immagine non può che diventare negativa. E a pagarne le conseguenze saranno tutte le organizzazioni che fanno fund raising, anche in modo diverso dai fatti citati in questo articolo.
Se non facciamo qualcosa per arginare questo andazzo corriamo un rischio enorme e lo corriamo tutti, non solo l’organizzazione che incorre in questi errori marchiani. Forse questo è un tema sul quale l’associazione dei fundraiser potrebbe fare qualcosa.