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Finanziare la ricerca pubblica con il fund raising: e’possibile?


Innanzitutto vorrei condividere con voi un caso che, seppure preso con le dovute cautele, ci introduce al tema che voglio trattare: il fund raising per la ricerca pubblica.

Si tratta di uno dei tanti progetti di ricerca che si stanno finanziando, in parte, con una piattaforma di crowdfunding dedicata alla ricerca scientifica: Sci-Fund Challenge, una comunità di scienziati e ricercatori che si dà da fare non poco per finanziare la ricerca e per condividerla con la gente comune.

Il tema mi sta molto a cuore perché nell’ultimo corso tenuto dalla Scuola di Roma Fund-Raising.it sulle strategie di fund raising abbiamo avuto modo di ospitare ricercatori del CNR nel campo della medicina e della fisica. Due rappresentanti tipici di quel mondo di ricercatori che vengono sottovalutati dal nostro paese, candidati quindi a fuggire insieme ad altri cervelli in paesi più interessati alla ricerca o a migrare presso aziende (anche se in questo momento non appare facile).

Spesso ritenuti impiegati inutili e nullafacenti e quindi produttori del nostro debito, questi ricercatori non solo devono combattere ogni giorno per far andare avanti le loro ricerche (che non fanno solo per proprio interesse, ma per il bene della comunità) ma, come nel caso dei nostri due partecipanti, addirittura si dannano l’anima per andare a trovare i soldi per finanziarla. Insomma: come i loro colleghi di Sci-Fund, ma con molte meno cartucce da sparare.

Tutto ciò in mezzo a mille problemi. I principali:

  • Non viene affidato loro questo compito, per cui lo devono fare nel tempo libero e in maniera non strutturata.
  • Gli istituti di ricerca non investono nel fund raising e non si assumono una responsabilità determinata in merito (semplicemente lasciano fare).
  • L’ambiente non è affatto sensibilizzato sull’importanza della ricerca.
Ricordo che l’Italia è uno dei peggiori investitori in ricerca. Noi impieghiamo in ricerca e sviluppo lo 1,26% del PIL contro una media Europea del 2% (dati ISTAT).

Attenzione questo dato riguarda non solo il pubblico ma anche il privato. Ossia: anche l’industria investe poco. Inoltre quello che investiamo ha poca qualità e quindi anche pochi risultati. Un problema di quantità e anche di poca qualità.

Contemporaneamente ogni anno 60.000 giovani lasciano il paese in cerca di lavoro di cui il 70% laureati (+40% negli ultimi 7 anni). Secondo l’Istituto Italiano per la Competitività (ICom), i nostri “cervelli” in fuga all’estero hanno portato con sé circa quattro miliardi di euro. Si tratta del valore di tutti i brevetti da loro realizzati al di là delle Alpi, negli ultimi 20 anni. Il 35% dei migliori 500 ricercatori italiani abbandona il Paese. Tra i migliori 100, uno su due sceglie di lavorare all’estero, mentre nei “top 50” la percentuale di fuga sale al 54%. Solo 23 ricercatori sono ancora in Italia.

Sempre per l’Icom (stima novembre 2011) il danno annuale della fuga dei ricercatori è di un miliardo di euro, cifra generata dai 243 brevetti che i nostri migliori cinquanta cervelli in fuga producono all’estero (Grazie a Fuga dei talenti per i dati!).

Non è un caso, evidentemente, che l’Italia ha un tasso di crescita e una probabilità di sviluppo molto bassa e soprattutto costantemente decrescente. Di conseguenza il mancato investimento sulla ricerca e sui suoi cervelli è uno dei maggiori rischi e danni nazionali.

La ricerca come causa sociale

Ebbene: non è forse quella della ricerca una vera e propria causa sociale? Non ha lo stesso valore dell’aiuto umanitario o dell’integrazione dei soggetti svantaggiati? Oppure, visto che la sua azione non impatta se non in modo molto mediato con i beneficiari finali, non ha la dignità di stare nel mercato del filantropismo? Non è un caso che la ricerca medica abbia una posizione migliore sul mercato, anche se questo riguarda le istituzioni non profit che la fanno e non le istituzioni pubbliche. Ma se queste sono le leggi del mercato, siamo sicuri che sono adeguate alla situazione attuale?

Questo fatto ci permette di fare qualche riflessione ad alta voce sul finanziamento della ricerca pubblica in Italia e sul fund raising e sulle cause di una sua totale assenza.

1La ricerca in Italia non è oggetto di una strategia solida di promozione sostegno e sviluppo. Se togliamo la ricerca in campo medico (spesso legata a figure istituzionali e scientifiche della medicina quali titolate associazioni e Fondazioni e “luminari” della scienza) tutto il resto dell’enorme campo della ricerca viene sottovalutato e a volte bistrattato. Difficile finanziare qualcosa che non è adeguatamente promosso.

2La ricerca svolta da organismi pubblici è difficilmente finanziabile con il fund raising perché a chiedere soldi sono soggetti che non godono di una grande credibilità visto l’attuale quadro politico e istituzionale. Forse sarebbe il caso di conferire agli istituti di ricerca un’identità sociale più forte, chiaramente facendo fare ingresso nella governance ad altri tipi di rappresentanza rispetto alle nomine politiche.

3La governance degli organismi di ricerca non ha una politica del fund raising. E invece dovrebbero investire importanti risorse non solo economiche ma anche umane e organizzative per fare fund raising, come succede in tutti gli altri paesi avanzati. I principali istituti di ricerca, come il CNR, nonostante il MIUR abbia garantito loro l’accesso al 5 per 1000 e li abbia invitati a farlo, hanno ricevuto dal 5 per 1000 cifre ridicole non avendo fatto nessuna campagna. Ecco i risultati ottenuti dai principali istituti di ricerca pubblici nel 2010:

  • CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE: 3.818 sottoscrizioni per 173.846,50 euro;
  • ISTITUTO NAZIONALE DI ASTROFISICA: 577 sottoscrizioni per 28.774,04 euro;
  • C.I.R.M. CONSORZIO ITALIANO PER LA RICERCA IN MEDICINA: 211 sottoscrizioni per 8.007,91 euro.

Molti istituti non figurano più negli ultimi anni. E lo si capisce se si vedono i risultati deprimenti ottenuti nel 2009: l’Istituto superiore di Sanità con 42.551 euro e 714 sottoscrittori; l’Agenzia spaziale italiana di euro ne ha totalizzati 8.922.

L’Istituto Nazionale di Geofisica che in questo momento storico avrebbe una grande opportunità di sostenere anche attraverso la raccolta fondi la propria indispensabile e qualificatissima ricerca ha raccolto solo 5.172 euro frutto di 85 contribuenti. Fanalino di coda l’Ispra che ha racimolato appena 130 euro, grazie a 3 contribuenti.

4Lo stesso discorso vale per i rappresentanti del governo. È a loro che compete il fatto di dotare il paese di una politica di fund raising per quelle aree dello sviluppo sociale e comunitario che il governo non è più in grado di sostenere. Se vediamo i casi degli altri paesi, dove moltissimi istituti pubblici di ricerca hanno un programma attivo di fund raising, i rappresentanti governativi hanno un ruolo molto attivo nella promozione di azioni di fund raising. Come nel caso dell’Università tecnica di Istanbul in Turchia, protagonista di una delle maggiori campagne di raccolta fondi per lo sviluppo della formazione e della ricerca, per la quale il principale promotore (il capo) è stato il Presidente della Repubblica.

Forse nel nostro caso i primi a non credere al fund raising sono proprio i nostri governanti non tanto e non solo come strategia di sostenibilità ma anche perché il fund raising richiederebbe loro di instaurare un nuovo rapporto con la comunità attorno ad un tema di grande interesse per tutti. Dovrebbero insomma pensare che i primi stakeholders della ricerca sono proprio i cittadini e la comunità locale.

5In particolare questo nuovo rapporto di alleanza andrebbe instaurato anche con le aziende che possono avere un grande interesse allo sviluppo della ricerca in quanto produttrice di elementi essenziali per lo sviluppo delle imprese stesse. Essendo l’Italia composta per l’80% di piccole e medie imprese, queste da sole non possono investire in modo significativo sulla ricerca e quindi rischiano di restare “al palo” nel contesto della competizione globale.

Pertanto il Governo (come succede in altri paesi) dovrebbe farsi portatore di politiche di alleanza che vedano le aziende come partner e non tanto come acquirenti della ricerca (il che limiterebbe molto l’autonomia degli istituti di ricerca e lo stesso profilo etico della ricerca) e neanche come meri filantropi (che comunque sono sempre benvenuti).

Insomma un patto di azione comune per finanziare attraverso il fund raising uno dei principali motori di sviluppo del paese. Evidentemente ripensando al quadro generale delle agevolazioni fiscali.

Sono convinto che se noi (governo, mondo non profit e del fund rasing e aziende) comunicassimo la ricerca come una grande causa sociale (chiaramente assumendo la responsabilità di renderla efficace) registreremmo un forte consenso.

Intanto guardiamo un po’ cosa si fa all’estero. Ecco qualche link verso enti di ricerca (di vario genere) che hanno un programma di fund raising.

Forse è il caso di adeguarsi. E in fretta.