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Ciao, ti e’ arrivato il mio messaggio?

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“Ciao, ti è arrivato il mio messaggio?”

Nell’ultimo mese ho sentito rivolgere questa domanda per tre volte. Due volte mi è stata posta personalmente; la terza volta l’ho sentita fare a un passante prima di essere “abbordato” a mia volta. Dopo quest’ultimo episodio e il modo in cui sono stato trattato, non ho resistito e ho deciso di andare un po’ fuori tema rispetto al mio consueto, provare a riflettere e sentire il vostro parere.

Vi spiego. A farmi questa domanda sono stati giovani dialogatori di grandi organizzazioni non profit (una in realtà rappresentava l’ufficio italiano di un’agenzia delle Nazioni Unite). Dopo essere stato fermato due volte per strada credendo proprio che qualche mio conoscente mi stesse chiamando, la terza volta è capitato mentre aspettavo l’ascensore di un edificio pubblico per recarmi (di corsa, come spesso mi capita) a una riunione di lavoro.

La situazione è la seguente: ascensore occupato e io che aspetto al piano terra e osservo il lavoro, volenteroso, dei dialogatori, che utilizzavano la stessa tecnica con la domanda del messaggio arrivato o meno, per attirare l’attenzione delle persone e attaccare bottone. Mentre assisto alla scena da una decina di metri, uno dei dialogatori mi viene improvvisamente incontro dicendo qualcosa del tipo: “E lei perché ci guarda così? Perché non viene ad ascoltare quello che abbiamo da dire”. Non ricordo le parole esatte ma il senso più o meno era questo.

Con gentilezza, ho declinato l’invito anche per non far lievitare il quarto d’ora di ritardo già maturato.

Salendo l’ascensore però ho dovuto fare i conti con una serie di sensazioni negative già provate in precedenza, quando la domanda del messaggio era stata rivolta a me. Da una parte il classico senso di colpa per non aver ascoltato una persona (sicuramente seria e motivata) che voleva parlarmi; dall’altro (e devo dire che quest’aspetto prevaleva) la sensazione di essere stato preso in giro, di essere trattato come un oggetto, di essere sfruttato con tecniche di fundraising così poco attente alla figura del sostenitore.

Opero da anni nel settore non profit, come fundraiser e con tanti altri compiti. Ho lavorato in progetti per l’inclusione sociale in tre continenti: i barboni di Roma, i bambini soldato in Guinea Bissau, i raccoglitori informali di rifiuti nelle discariche latinoamericane. Non lo dico per vantarmi di fronte ai dialogatori più giovani di me che rincorrono un lavoro nel non profit. Ci mancherebbe: non sono questo tipo di persona.

Lo dico solo perché, così come tante altre persone che magari non hanno neanche mai lavorato in cooperazione ma fanno lavori altrettanto nobili, non credo di meritarmi di essere trattato in questo modo.

È una strategia di fundraising seria quella che parte dall’inganno e punta in modo spregiudicato sul senso di colpa per racimolare quattrini dai passanti? Perché mai dovrei fare una donazione in denaro o mettere a disposizione parte del mio tempo a favore di chi usa tecniche di fundraising a dir poco “rapaci”. Che tipo di relazione posso mai instaurare con un’organizzazione non profit che entra in contatto con me attraverso una bugia?

Personalmente ho un’idea del tutto diversa di fundraising, un’idea che parla il linguaggio della consapevolezza e della condivisione, del rispetto e della partecipazione. Non ho mai creduto al fatto che, per aiutare gli altri, occorra prendere in giro chi ci sta accanto.

Sì, mi sono sentito preso in giro da organizzazioni che non sanno nulla di me. Se le ultime tecniche di dialogo face to face prevedono questo tipo di strumenti da venditori di aspirapolvere e contratti del gas (e lo dico con il massimo del rispetto: ma si tratta di settori del tutto differenti dalla lotta alla fame nel mondo), vuol dire che si è superato un limite. Il limite del rispetto per il donatore che è, prima di tutto, una persona.

Mi auguro di non avere più a che fare con queste strategie spicciole e spero che, grandi attori della cooperazione che avrebbero sicuramente mezzi e competenze per fare meglio e puntare su un dialogo face to face come si deve, si rendano conto dell’errore, che a lungo andare potrebbe essere controproducente anche dal punto di vista economico.

La storia e la sensibilità di chi sostiene o potrebbe decidere di sostenere un’organizzazione non profit vanno rispettate. Sempre. Altrimenti non può esistere vero fundraising. Qual’è la vostra opinione?