Di norma quando un autore vive l’ambizione di affrontare una trattazione (e non un semplice articolo giornalistico) che ha lo scopo di denunciare problematiche o disservizi, questi dovrebbe sentire l’obbligo morale di approfondire l’argomento fino a conoscerlo in maniera esaustiva o comunque approfondita. Questo è importante quantomeno per poter gestire al meglio i commenti o le reazioni di chi legge la sua opera.
Tale buona pratica ritengo non sia stata adeguatamente adottata da Valentina Furlanetto, l’autrice del libro “L’industria della carità”, già ampiamente commentato dalla collega Elena Zanella nel suo blog.
Lasciando i commenti sul contenuto del libro a voci del non profit ben più autorevoli di me, vorrei limitarmi a condividere il mio pensiero sulla definizione di fundraiser che vi si trova. Oltre al fatto che imbattersi in un abbozzo di definizione di chi si occupa di raccolta fondi solo nella sezione finale, simile ad un glossario in un libro che parla di fondi e gestione degli stessi, mi è sembrato alquanto singolare.
“L’industria della carità”: quale definizione di fundraiser?
La cosa più sorprendente però è stata leggere come la Furlanetto definisce il fundraiser:
“È la versione patinata e tecnologicamente avanzata della vecchina che in chiesa raccoglie le offerte. Tuttavia loro preferiscono definirsi «professionisti con il compito di acquisire risorse da fonti private per il raggiungimento da parte di un ente o organizzazione non profit di uno scopo sociale». Che a ben vedere è comunque più o meno la stessa cosa. Per farvi aprire il portafogli”.
Con sole cinque righe l’autrice è riuscita a spazzare via gli ultimi dieci anni di lavoro di chi con passione e dedizione lavora per far crescere i progetti delle organizzazioni non profit, per consentire ai donatori di investire nella comunità per renderli partecipi e attori di un cambiamento sociale, per dare loro la gioia di donare e per alleviare i disagi e le sofferenze dei più vulnerabili.
Così con poche parole si afferma un concetto decisamente desueto, siamo tornati o meglio rimasti all’era antidiluviana! L’autrice stessa afferma che chi chiede donazioni è:
“Come la Chiesa con la vecchina che raccoglie le offerte”.
Che scena patetica e semplicistica! Se volessimo fare un parallelismo sarebbe come equiparare i giornalisti agli inventori di fiabe o ai cantastorie. Sono professioni diverse non vi pare? Chi glielo spiega all’autrice quanta differenza c’è fra le due cose e quanto studio e pensiero esistono in tutto il mondo, quanta letteratura e corsi sono stati prodotti sul concetto moderno ed evoluto di dono e richiesta del dono, quanti casi pratici di vera filantropia esistono.
Ecco, a questo punto io, non poco preoccupata, mi chiedo se quello che è stato scritto sia frutto di una mancanza di tempo per approfondire da parte dell’autrice o se davvero il mondo e soprattutto i giornalisti conoscono il nostro lavoro così come definito dalla Furlanetto. Se fosse vera la seconda ipotesi avremmo responsabilità in merito e forse dovremmo fare qualcosa per rimediare.
Cosa ne pensate?