A pagina 44 del numero 1.240 del Venerdì di Repubblica, uscito prima di Natale, Pietro Veronese ha lanciato un appello contro un uso un po’ troppo strumentale dei bambini africani per attirare l’attenzione sulle campagne di raccolta di fondi il cui significativo titolo è “È Natale: giù le mani dai bambini africani”.
L’articolo accusa le Ong (ma in generale le organizzazioni non profit) di usare i bambini africani o di altri paesi come richiamo pubblicitario forte al fine di ottenere l’attenzione dei donatori. Una sorta di “sfruttamento” di immagine ma anche di identità (a danno della loro dignità), che passa facilmente sotto silenzio perché posto sotto il cappello della beneficenza.
L’articolo termina invocando una sorta di authority che permetta di arginare e respingere questo fenomeno abbastanza pericoloso.
Su questo articolo credo che molte organizzazioni potrebbero ribattere dimostrando un reale impegno per i bambini africani. Ma come successo per il caso dei dialogatori malpagati e formati ad hoc per “estorcere” donazioni a tutti i costi (vedi discussione sull’articolo della scorsa settimana del nostro blog), anche in questo caso il problema non è tanto nel singolo caso (magari di malcostume) ma nell’immagine complessiva che si sta dando del fund raising e del non profit.
Io personalmente noto come fenomeni propri di questa tendenza l’uso di alcune parole chiave che servono a stare bene sul mercato. Per esempio si usano molto alcuni termini in inglese: child, smile, peace, for, Africa, friends. Questo tipo di vocaboli è utilizzato anche nella versione italiana da quelle organizzazioni che proprio non se la sentono di vestire i panni di una multinazionale della carità: “cuore”, “sorriso” e “amico”, oltre agli immancabili “SOS”, “aiuto” ed “emergenza”.
Quale immagine per comunicare l’Africa?
Credo poi che sia molto importante il punto di vista di intellettuali ma anche semplici cittadini dei paesi in via di sviluppo, che ritengono ormai troppo ingombrante e autoreferenziale la presenza di organizzazioni internazionali di aiuto umanitario. Ingombrante da un punto di vista dell’uso delle risorse per lo sviluppo e fuorviante perché perpetra una immagine derelitta dell’Africa che è funzionale a sottolineare la condizione di emergenza e disperazione, che dovrebbe muovere il cuore e il portafogli delle società “ricche”.
Un altro (e forse peggiore) segnale è quello della noia, del senso di appiattimento delle cause sociali e alla lunga dell’inefficacia. Perché ogni organizzazione si propone come risolutiva di problemi che dopo decenni non sono stati neanche mitigati (risolverli del tutto forse è impossibile).
Io credo che il donatore meriti di più. E anche il non donatore.
Sì, lo so. È una discussione difficile e già mi immagino la levata di scudi. Credo, tuttavia, che una sana riflessione, non moralistica né superficiale, possa aiutarci a capire come rinnovare in modo proficuo il rapporto tra l’opinione pubblica e il fund raising.
Per la cronaca, ecco alcuni dati dalle ricerche su Google:
- “Smile+onlus” su google = circa 297.000 pagine
- “Africa+Onlus” = circa 1.750.000 pagine
- “Children+onlus”= circa 1.270.000 pagine