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Il lavoro a percentuale avvelena il fundraising (speciale Campagna 0%)

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ASSIF, l’Associazione Italiana Fundraiser, sulla scorta delle tante segnalazioni circolate in rete circa ennesime offerte di lavoro a percentuale rivolte ai fundraisers e coerentemente con il proprio codice etico che ha detto già parole chiave su tale argomento, ha lanciato una campagna per combattere la pratica di retribuire il lavoro dei fundraisers attraverso una percentuale sulle entrate (donazioni, sponsorizzazioni e quant’altro).

Non è solo un dovere aderire a questa campagna e diffonderla, ma è anche un piacere.

Perché questa equivoca e antipaticissima pratica mette a nudo alcuni aspetti estremamente critici delle organizzazioni non profit e dei loro dirigenti. Rappresenta quindi l’occasione per andare fino in fondo a tali problemi che rappresentano oggi uno degli ostacoli maggiori al reale sviluppo del fundraising e quindi anche delle stesse organizzazioni.

Il manifesto lanciato da ASSIF – frutto della collaborazione di molti suoi soci – mette in evidenza 4 aspetti che sono essenziali per dire NO all’uso della retribuzione a percentuale:

1Un fundraiser sa che l’efficacia dell’attività non dipende unicamente dal proprio operato, bensì da una pluralità di fattori.

2Un fundraiser sa che questa forma di retribuzione può indurre a scelte e comportamenti più mirati al guadagno personale piuttosto che all’interesse dell’ente per cui opera e alla volontà del donatore.

3Un fundraiser sa che il suo operato è frutto di relazioni, reciproca fiducia, consenso e adesione con il donatore. Tali valori devono essere mantenuti e rispettati.

4Un fundraiser sa che il reale valore della prestazione fornita tiene conto anche dei risultati intangibili che la sua attività genera con passione, etica e competenze.

La Scuola di Roma Fund-Raising.it nel raccogliere e rilanciare la campagna vuole mettere in evidenza altri aspetti che qui e là sono emersi dalla sua esperienza di formazione e consulenza e che sono i seguenti.

Fundraising a percentuale: ulteriori aspetti negativi

  • La proposta di lavorare a percentuale nasconde l’intenzione dell’organizzazione di non investire sulla raccolta fondi e quindi sul sostengo della propria causa e di esternalizzare ogni rischio che invece, essendo impresa sociale, va assunto dalla compagine stessa. Se un’organizzazione non si assume il rischio connesso all’impegno per il raggiungimento della causa, non si capisce perché altre persone fuori dall’organizzazione dovrebbero darsi da fare per sostenerla.
  • Fa pensare che la professionalità nel fundraising sia un costo, mentre, invece, non può che essere un investimento lungimirante. Il fundraising raramente paga in tempi brevissimi e non ha come scopo riempire la cassa, ma rendere sostenibile nel tempo una causa sociale. Il piano di fundraising è per un’organizzazione come un business plan per un’azienda. Nessun professionista che fa un business plan e lo mette in opera viene pagato a percentuale. Gli investimenti non possono essere sostenuti a percentuale. I costi di fundraising sono tipografie, spese postali, acquisto di spazi pubblicitari, ecc. Come mai, allora, per questi le organizzazioni non chiedono il pagamento a percentuale? Forse sono più importanti di un lavoro del fundraiser?
  • È fuorviante rispetto al patto che le organizzazioni stipulano con il donatore, che è costretto, a sua insaputa, a sostenere il professionista mentre i soldi gli sono stati chiesti per una causa sociale. Alla faccia della trasparenza! Allora facciamo così: se pagate un fundraiser a percentuale abbiate il coraggio di dire ai vostri donatori: “Guarda che noi il fundraiser lo paghiamo a percentuale, per cui una parte di quello che tu ci dai va al fundraiser. Più doni, più paghiamo il fundraiser!”. Ribadisco: se siete onesti e trasparenti e pagate a percentuale, cari dirigenti di organizzazioni, dovete dire ai donatori questa cosa.
  • Produce un pericoloso paradosso: più soldi si raccolgono e più i soldi vengono distolti dalla causa sociale. Se io raccolgo 100 e prendo il 10% levo alla causa sociale 10. Se io raccolgo 1.000, levo alla causa sociale 100. Tutto ciò è assolutamente pazzesco.
  • Assomiglia tremendamente alla tangente o alla cosiddetta marchetta, cose di cui ci stiamo liberando con grande fatica in tutti i settori e di cui i nostri interlocutori (aziende, individui, fondazioni) si vogliono liberare. Integra pericolosamente l’interesse per la causa con altri interessi personali ed economici spesso incompatibili con essa.
  • I fundraisers non portano soldi ma costruiscono strategie, mezzi e attività che permettono all’organizzazione di trovare risorse. Non c’è un legame logico tra attività professionale del fundraiser e percentuale. Non è applicabile per essenza. Il fundraiser aiuta l’organizzazione a raccogliere. La faccia ce la mettete voi dirigenti e rappresentanti. I donatori vogliono questo, non i fundraisers! È molto comodo pensare di sgravarsi da questa responsabilità. È impossibile pensare di scaricarla ad un professionista che lavora a percentuale.
  • Il fundraiser non è un procacciatore di affari. Se volete questo, andatelo a cercare da qualche altra parte ammesso che esista e faccia il suo lavoro legalmente. Non prendiamoci in giro! La percentuale è stato il sistema con il quale si sono sponsorizzati centinaia di eventi e iniziative pubbliche anche di raccolta fondi, in cui i finanziatori sapevano di pagare per uno scambio di interessi. Punto e basta. Della causa e dell’efficacia dei progetti non gliene fregava un fico secco a nessuno. Se volete un caso concreto guardate questo esempio commentato poco più di un anno fa. Se i dirigenti del non profit vogliono perpetrare questa cultura facciano pure. Noi non li seguiamo.
  • Infine ci appelliamo alla coscienza di persone che, essendo del non profit, conoscono (o dovrebbero conoscere) molto bene il problema del lavoro. Spesso vi rivolgete a giovani professionisti ai quali chiedete di lavorare sottopagandoli o pagandoli male. Non vi sembra la stessa pratica che viene fatta nei call centers, nella vendita porta a porta? È questo il rispetto che abbiamo per i giovani lavoratori? La crisi economica giustifica il fatto di sfruttare il lavoro delle persone? E questo vale anche per quei giovani che lavorano in aziende di field marketing delle quali alcune non profit si servono e delle quali dovrebbero assicurarsi circa il rispetto dei diritti dei lavoratori. Vi sembra che il fatto di lavorare per una causa sociale giustifichi un comportamento del genere? Non insisto sulle risposte perché dovrebbero essere scontate.

Occorre dire sempre NO al fundraising a percentuale

Ecco perché a chi propone lavoro a percentuale va detto di NO e gli va anche spiegato perché. Affinché capisca che la strada del successo per l’organizzazione passa attraverso un’assunzione di responsabilità circa gli investimenti da fare. Il fundraiser (che venga dall’interno o che venga dal mercato del lavoro) è un investimento necessario.

Vorremmo a questo punto tranquillizzare i dirigenti. Se un fundraiser non è bravo, non è all’altezza o non vi va a genio, la soluzione è molto semplice: lo mandate a casa come fareste con il commercialista, con l’avvocato o con il grafico pubblicitario. Usate lo stesso metro di giudizio. E badate bene: i professionisti che ho citato non vengono pagati a percentuale. Come mai? Avete paura di chiederglielo?

Perché, invece della percentuale, non ragionate, se proprio non potete sostenere il prezzo pieno di un apporto professionale, su un sistema premiante che permetta nel tempo di raggiungere il livello retributivo adeguato?

Quindi, cari fundraisers che ricevete tali proposte:

1Rifiutatele.

2Spiegate all’interlocutore che su questa strada sta facendo del male non solo a voi ma a se stesso perché così fundraising non lo farà mai.

3Invitatelo a leggere il manifesto dell’ASSIF e se volete i post scritti sui vari blog incluso questo.

4Ditegli di smettere, perché così avvelena il fundraising e il non profit.

Se volete, potete commentare o diffondere su Twitter. A proposito: seguiteci @fundraisingroma