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Categoria: Sul fund raising

Parole, ritmo e suoni: l’importanza dello scrivere nel fundraising

Scrivere per il fundraising

Scrivere per raccogliere fondi non è facile, almeno per me.

Come incipit è scoraggiante, lo so, ma voglio sgomberare il campo dall’illusione che un po’ di fantasia e qualche regola siano sufficienti a ottenere un buon risultato.

Forse pensi che voglia “metterla giù dura” per giustificare il lavoro mio e di tutti i copywriter e ghostwriter. Non è così. Dammi il beneficio del dubbio, almeno per qualche secondo.

Scrivere è un atto di responsabilità e farlo per conto di un’associazione lo è ancora di più. Prima di ogni parola scritta c’è una scelta precisa, o almeno così dovrebbe essere.

“Le parole sono importanti!” urlava Nanni Moretti in Palombella Rossa. Le parole hanno un peso, aggiungo io. Sono come dei mattoni. Sta a noi decidere se prenderne due o tre a caso e buttarli addosso a chi ci legge o ascolta, oppure utilizzarli per dare forma alla realtà (informare) e a una storia (raccontare).

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Settembre: lotterie di fundraising e vendemmia

Lotterie di beneficienza e fundraising

Raccolto copioso per i viticoltori italiani che nel 2015 sono tornati a primeggiare fra i produttori di vino, superando Francia e Spagna.

Altrettanto copioso può essere il raccolto di denaro delle organizzazioni nonprofit che a settembre decidano di lanciare una lotteria di beneficienza.

Superiamo insieme un’obiezione diffusa basata sul pregiudizio: quello secondo cui la lotteria è un modo molto marginale di sostenere una buona causa. Intendiamoci: se la lotteria non è inserita in un piano strategico con altri mercati e metodologie di raccolta fondi, l’obiezione può pure essere reale.

Cerchiamo, però, di guardare la questione con altri occhi. Non dobbiamo essere per forza monolitici. Osserviamo la nostra organizzazione, cerchiamo di capire se possiede i fondamentali per promuovere una lotteria di raccolta fondi e, innanzitutto, se ha sufficienti “amici” e una rete sociale adeguata.

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Ciao, ti e’ arrivato il mio messaggio?

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“Ciao, ti è arrivato il mio messaggio?”

Nell’ultimo mese ho sentito rivolgere questa domanda per tre volte. Due volte mi è stata posta personalmente; la terza volta l’ho sentita fare a un passante prima di essere “abbordato” a mia volta. Dopo quest’ultimo episodio e il modo in cui sono stato trattato, non ho resistito e ho deciso di andare un po’ fuori tema rispetto al mio consueto, provare a riflettere e sentire il vostro parere.

Vi spiego. A farmi questa domanda sono stati giovani dialogatori di grandi organizzazioni non profit (una in realtà rappresentava l’ufficio italiano di un’agenzia delle Nazioni Unite). Dopo essere stato fermato due volte per strada credendo proprio che qualche mio conoscente mi stesse chiamando, la terza volta è capitato mentre aspettavo l’ascensore di un edificio pubblico per recarmi (di corsa, come spesso mi capita) a una riunione di lavoro.

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Altro che primo settore: #fuorileliste!

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Cara Agenzia delle Entrate,

come saprai sono passati più di 600 giorni da quando i nostri donatori hanno destinato il loro #‎5×1000‬‬ del reddito alle organizzazioni del #‎terzosettore‬ , ma non sappiamo ancora quanto nel complesso hanno devoluto a noi. E non sapremo mai, nonostante le nostre ripetute richieste, chi sono e dove stanno.

1 giorno per fare la donazione e 600 giorni per conoscere le #‎liste‬ e i risultati.

È un ritardo ingiustificabile sotto ogni aspetto. E soprattutto un ritardo che produce un danno enorme non solo per noi ma soprattutto per le cause che sosteniamo e per i beneficiari della nostra azione sociale. Cause e beneficiari che evidentemente non possono fare affidamento solo sull’intervento pubblico e per i quali il nostro ruolo è essenziale.

D’altro canto è proprio lo Stato che, dalla Costituzione in poi, fino ad arrivare alla riforma del nostro settore, ha sempre affermato l’indispensabilità del nostro lavoro. Ma una cosa è affermarla e altra cosa è sostenerla concretamente.

Ci è piaciuto lo slogan di Matteo Renzi: “Il Terzo settore, in verità è il Primo settore!”. E ci ha fatto anche sperare e “volare alto”. Ma i fatti, almeno quelli che dipendono dalla macchina burocratica e amministrativa ci hanno fatto tornare con i piedi per terra in modo crudo e doloroso.

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Fare fundraising con la pancia e con la testa

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In questo periodo è sui principali canali di comunicazione uno spot di raccolta fondi per combattere la fame in Africa in cui si vede la classica immagine del bambino africano con la pancia gonfia.

Io continuo a chiedermi: “Cui prodest?”. A chi giova questo tipo di comunicazione? Al beneficiario? Non credo. Mi sono immaginata il bambino della foto tra dieci anni… uscito da quella situazione drammatica, con un lavoro, un’istruzione, una famiglia e che per molte persone sarà sempre il bambino con la pancia gonfia, anche se lui è diventato altro.

Al fundraising? Anche qui non credo. Qualcuno potrà obiettare: “Però hanno raccolto moltissimi soldi”. Ottimo! E la relazione con il donatore? È di tipo emergenziale? Ovvero il donatore dà i soldi solo perché vede il bambino con la pancia gonfia? E questo lo rende un donatore costante?

Mi sono messa nei panni del donatore e ho pensato: “Se continuate a far vedere il bambino con la pancia gonfia la vostra azione forse non è così efficace”.

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