Qualche giorno fa ho letto un interessante post sul Blog de “Il mestiere di Scrivere” di Luisa Carrada (sito che seguo da anni e che consiglio a tutti) sulla crisi di efficacia del linguaggio promozionale di marketing e pubblicitario che, secondo me, rappresenta un valido spunto per ripensare la comunicazione di fund raising.
Eccovi il brano:
“Nella sua newsletter settimanale Giraffe Forum ieri Gerry McGovern sosteneva che il consumatore si sta facendo sempre più smaliziato e meno incline a farsi manipolare dal punto di vista emotivo. (….) Secondo le sue ricerche non solo i banner non li guarda e legge più nessuno, ma nei siti di prodotti finanziari le immagini illustrative farebbero addirittura diminuire la fiducia nei contenuti”.
E più avanti:
“Ma le aziende vogliono ancora dirti come un prodotto ti farà sentire prima ancora di dirti cosa è quel prodotto”.
Mi sono passate davanti agli occhi campagne pubblicitarie di organizzazioni non profit viste in televisione, lette sui giornali ma anche depliant e volantini che circolano qui in ufficio, le tante newsletter che ricevo via email e i siti di varie organizzazioni ed eccovi le domande e le riflessioni che voglio condividere con voi.
Forse si tende a dare maggiore peso al contenitore, al vestito, alla sovrastruttura dei contenuti piuttosto che ai contenuti stessi perché i nostri contenuti oggi sono un po’ deboli, scontati, poco innovativi?
Comunicazione per il fundraising: nuovi canali, vecchia retorica
Se il non profit usa anche canali di comunicazione non praticati tradizionalmente dalla comunicazione pubblicitaria (interazione su internet, contatto diretto, ecc.) e praticati dal suo “pubblico” proprio per avere un valore diverso da TV, manifesti e volantini pubblicitari, perché trasferisce su questi canali la retorica tipica delle vecchie lettere di direct marketing o quelle degli spot pubblicitari?
Forse è urgente rivedere la nostra cultura di comunicazione e smettere di pensare che per avere più donatori in questo supermarket della filantropia bisogna aggiungere condimenti e spezie che attraggano il palato dei nostri target, mentre invece occorre valorizzare la pietanza. Insomma, per proseguire in questa metafora: evitiamo di incorrere nel tragico errore di trasformare un’ottima carbonara in una “pasta di Gragnano in salsa d’uovo e guanciale delle cinte senesi su un letto di cipolla rossa di tropea”. In questo momento c’è più richiesta di cibo e di sostanza che di parole belle per descriverlo.
Credo che una attenta lettura della crisi e dei suoi effetti sulla cultura degli individui e una lungimiranza nel comprendere dove sta andando il fund raising di domani (un investimento sociale piuttosto che un semplice gesto di generosità) può incrementare il fund raising molto più di quanto possa fare la rincorsa a rendere il più ”appetibile” (in tutti i sensi, tanto per continuare la metafora culinaria…) possibile la nostra causa. Anche perché i contenuti restano, le forme passano. Se leghiamo i donatori alla prima cosa, essi restano, altrimenti passano.
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