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Perche’ c’e’ bisogno di un’associazione di tutti i fundraisers

Assif-fundraising

Il 29 marzo 2012 l’Associazione dei Fundraiser ha approvato il nuovo regolamento che apre l’Associazione a tutti coloro che si occupano di raccolta fondi: professionisti, volontari, lavoratori, dirigenti. Più che una regola, si tratta di una sfida…

Elena Zanella, fundraiser professionista molto dinamica e attiva nel dibattito sulla raccolta fondi, ha espresso con estrema chiarezza la sua posizione circa l’identità che debba assumere l’Associazione Italiana Fundraiser (già Assif). Questa si trova in bilico tra essere l’associazione di tutti coloro che si occupano di raccolta fondi per cause sociali, a prescindere dalla loro posizione professionale interna o esterna alle organizzazioni, o solo di coloro che fanno del fund raising la loro carriera professionale, rappresentando e tutelando questa professione nei confronti delle organizzazioni non profit datrici di lavoro. Per comodità chiameremo questa seconda identità professional.

Elena Zanella propende per la seconda, affermando che: “Se è vero che la tendenza è quella della professionalizzazione del settore, allora rappresentare una parte definita della comunità, (quella dei professional appunto – N.d.R.), significa tutelarne i diritti e avere la credibilità giusta per affrontare temi anche spinosi ai tavoli istituzionali”.

Infatti Elena aggiunge che: “Sono dell’idea che ASSIF abbia i requisiti per far leva e favorire all’accelerazione della dinamica in atto, al fianco del professionista del fundraising interno che non lo dice ma si aspetta di guadagnare un po’ di più. Rappresentando il popolo di chi si occupa di fundraising – che sia o meno retribuito intendo dire -, siamo davvero convinti di essere nella posizione di poter dettare condizioni? Io credo di no”.

Per Elena, insomma, facendo quadrato attorno ai professionisti retribuiti del fund raising e difendendo anche e soprattutto i loro diritti retributivi si è più forti e si fa un buon servizio anche ai fundraisers “interni” ad un’organizzazione (ossia che ne sono membri e non dipendenti) affinché abbiano retribuzioni migliori.

Pensiero chiaro e onesto quello di Elena. Al quale però vorrei rispondere affermando il mio punto di vista, già ampiamente rappresentato durante l’Assemblea dell’Associazione del 29 marzo scorso, che invece ha votato un allargamento della base dell’Associazione.

La retribuzione del fundraiser non è l’unica questione importante

1Primo. La dimensione professionale del fund raising non può essere riassunta nella questione retributiva. Il fatto di essere pagati e pagati bene è uno degli aspetti di una professione ed è molto importante. Ma ve ne sono altri, importanti anch’essi, che riguardano il tempo, le competenze e le capacità, il senso di responsabilità, ecc. Pertanto difficilmente la questione retributiva da sola può essere la ragione per affermare a tutto tondo una professionalità forte dei fundraisers. Inoltre va preso atto che i fundraisers di un’organizzazione sono liberi, se vogliono, di farlo volontariamente, ossia senza retribuzione e questo non vuol dire automaticamente che lo facciano in maniera non professionale.

Io non credo, come invece crede Elena, che i fundraisers non professional vogliano più soldi ma non hanno coraggio di chiederlo. O almeno non credo che sia un problema di tutti. Forse semplicemente non hanno l’identità di dipendente. Forse sono volontari. Forse sono imprenditori che investono insieme ad altri per rendere sostenibile la causa sociale e con essa anche sostenibile il loro ruolo professionale.

Se proprio si vuole essere una sorta di “sindacato” della categoria, bisogna decidere se esserlo dei dipendenti, dei dirigenti o degli imprenditori. Difficile esserlo di tutti e tre. Sicuramente è più facile e più importante essere l’Associazione (e non il sindacato) di tutti e tre.

I professional sono molto meno numerosi dei fundraisers reali

2Secondo. I professional in Italia sono un numero infinitamente minore dei fundraisers reali. Pertanto, se vogliamo fare un discorso di forza di impatto conviene senza dubbio rappresentare l’intera categoria e non solo quella dei professional. Il problema è se l’Associazione voglia o meno rappresentare le aspettative, le problematiche e le sfide che accompagnano la vita professionale di tutti coloro che si dannano l’anima per trovare fondi. Ossia: volontari, presidenti e soci di associazioni, soci lavoratori di cooperative sociali e, chiaramente, professional, che ogni mattina si svegliano e devono fare fund raising.

È una scelta politica e strategica, questa. Non una scelta tattica. La sfida sta anche nel fatto che per l’Associazione l’inclusione di questi soggetti non è una cosa naturale, non avviene spontaneamente, ma è un obiettivo da praticare e raggiungere avendo un’idea chiara di come fare. L’ASSIF dovrà parlare loro (a tutto il popolo dei fundraisers) e non aspettare che questi vengano in un’associazione che forse fino ad oggi poco ha detto circa le loro sfide, le loro attese e i loro problemi reali. Credo che i gruppi locali possano e debbano avere soprattutto questa funzione di accogliere e far riconoscere in quest’area professionale tutti quelli che ancora non hanno percepito l’esistenza dell’Associazione. Non essere, quindi, soltanto il momento di ritrovo dei colleghi.

Attenzione: il prossimo censimento ISTAT metterà in evidenza il fatto che vi sono almeno 450.000 organizzazioni non profit. Questo vuol dire che vi sono almeno 225.000 fundraisers in giro per l’Italia (facendo un calcolo minimalista e pensando che in media 1 organizzazione su 2 ha un fundraiser di fatto). Questa è la vera rappresentanza che bisogna fondare. Allora sì che avremo forza sui tavoli.

Anche i fundraisers non professional sono forti

3Terzo. Ma perché pensare che i non professional siano meno forti dei professional? Ma abbiamo idea di quanti presidenti, direttori, soci fondatori di organizzazioni fanno fund raising?

Noi spesso diamo a tutti coloro che non sono professional una connotazione di volontari giovani e scalcinati in cerca di un lavoro retribuito.

Forse sarebbe necessario fare una vera ricerca su chi sono i fundraisers oggi in Italia e non una raccolta di notizie su quelli che sono già soci dell’Associazione.

Inoltre vedo una certa incoerenza tra l’idea che dovremmo rappresentare solo i professional (la parte “tosta”) essendo meno inclusivi sugli altri, mentre poi dovremmo spalancare le porte agli studenti. Chiarito che io non ho nulla in contrario a far entrare i giovani candidati fundraisers (ho votato a favore), va preso atto, però, che loro ancora non fanno fund raising e li facciamo entrare, mentre quelli che già lo fanno li dovremmo tenere fuori. Perchè?

I problemi politico-sociali del fund raising

4Quarto. Oggi in Italia i grandi problemi del fund raising sono innanzitutto politici e sociali ancora prima che strettamente professionali e sindacali. E, soprattutto, il problema del fund raising non è un problema dei fundraisers ma è un problema di tutti: degli individui (donatori e non), delle aziende, delle fondazioni e chiaramente delle organizzazioni non profit, che sono chiamati a rispondere alla sfida della sostenibilità delle cause e delle politiche sociali.

Il punto di vista espresso da Bernardino Casadei nell’Assemblea del 29 marzo mi sembra un invito ad allargare l’orizzonte circa il significato e il peso sociale del fund raising. Una rappresentanza di tipo prettamente “sindacale e di categoria” rischia di portare il fund raising lontano dall’arena in cui si dibatte di questa grande sfida e di metterlo all’angolo di un ring dove gli avversari sono la crisi economica, uno stato che rema contro il fund raising pur invocandone l’esistenza, una legislazione restrittiva circa le agevolazioni, una serie di opinion leaders che minimizzano il ruolo del non profit. Insomma un angolo del ring in cui si rischia di prendere un sacco di botte.

In conclusione: occorre rappresentare il peso politico del fund raising

Si verrà presi sul serio sui tavoli che contano se si è in grado di rappresentare il peso politico del fund raising e non certo solo il peso professionale di qualche centinaio di professional.

Queste sono le ragioni che hanno portato i soci il 29 marzo a scegliere per una rappresentanza larga e non certo un’intenzione di indebolire la categoria, che poi sarebbe solo masochismo.

Certo se il consiglio direttivo così come tutti i soci danno seguito a quest’orientamento sarà difficile affermare la centralità del fund raising nel nostro paese. Forse servirebbero un programma politico e un’azione forte per far entrare (accogliendoli a braccia aperte) le migliaia di individui che popolano il fund raising in Italia.

Insomma, aprire le porte dell’Associazione e chiamarli a raccolta invece di mettere semplicemente un campanello alla nostra porta al quale possano bussare. Oltre ad essere un raduno tra colleghi, soprattutto i gruppi territoriali possono svolgere questa funzione e diventare dei momenti per dialogare con quelli che non stanno nell’associazione, ascoltandoli, riconoscendoli quali fundraisers, coinvolgendoli e chiedendo loro di assumersi responsabilità al pari dei soci.