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Fare fundraising con la pancia e con la testa

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In questo periodo è sui principali canali di comunicazione uno spot di raccolta fondi per combattere la fame in Africa in cui si vede la classica immagine del bambino africano con la pancia gonfia.

Io continuo a chiedermi: “Cui prodest?”. A chi giova questo tipo di comunicazione? Al beneficiario? Non credo. Mi sono immaginata il bambino della foto tra dieci anni… uscito da quella situazione drammatica, con un lavoro, un’istruzione, una famiglia e che per molte persone sarà sempre il bambino con la pancia gonfia, anche se lui è diventato altro.

Al fundraising? Anche qui non credo. Qualcuno potrà obiettare: “Però hanno raccolto moltissimi soldi”. Ottimo! E la relazione con il donatore? È di tipo emergenziale? Ovvero il donatore dà i soldi solo perché vede il bambino con la pancia gonfia? E questo lo rende un donatore costante?

Mi sono messa nei panni del donatore e ho pensato: “Se continuate a far vedere il bambino con la pancia gonfia la vostra azione forse non è così efficace”.

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L’uso dei bambini nelle campagne di raccolta fondi

Mappa AfricaA pagina 44 del numero 1.240 del Venerdì di Repubblica, uscito prima di Natale, Pietro Veronese ha lanciato un appello contro un uso un po’ troppo strumentale dei bambini africani per attirare l’attenzione sulle campagne di raccolta di fondi il cui significativo titolo è “È Natale: giù le mani dai bambini africani”.

L’articolo accusa le Ong (ma in generale le organizzazioni non profit) di usare i bambini africani o di altri paesi come richiamo pubblicitario forte al fine di ottenere l’attenzione dei donatori. Una sorta di “sfruttamento” di immagine ma anche di identità (a danno della loro dignità), che passa facilmente sotto silenzio perché posto sotto il cappello della beneficenza.

L’articolo termina invocando una sorta di authority che permetta di arginare e respingere questo fenomeno abbastanza pericoloso.

Su questo articolo credo che molte organizzazioni potrebbero ribattere dimostrando un reale impegno per i bambini africani. Ma come successo per il caso dei dialogatori malpagati e formati ad hoc per “estorcere” donazioni a tutti i costi (vedi discussione sull’articolo della scorsa settimana del nostro blog), anche in questo caso il problema non è tanto nel singolo caso (magari di malcostume) ma nell’immagine complessiva che si sta dando del fund raising e del non profit.

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