Sono anni che ci diciamo che la crisi sta mettendo in ginocchio le aziende e che di conseguenza i budget per programmi di responsabilità sociale d’impresa sono stati tagliati o ridotti ai minimi termini.
Anche quel poco di ricerche che esistono in Italia sulle sponsorizzazioni confermano questa tendenza. Al riguardo vi segnalo la ricerca realizzata da StageUp.
Potremmo ragionare sulla responsabilità sociale d’impresa e fare molte considerazioni sul suo essere strategica. Credo però che ci saranno occasioni migliori per affrontare la questione. L’unica cosa che mi permetto di dire al riguardo è che le reali intenzioni non mi sembrano coincidano con quelle dichiarate, altrimenti in un momento di crisi le aziende avrebbero dovuto investire di più in programmi di RSI.
Non vorrei tuttavia apparire come colui che vuole portare acqua al suo mulino. Infatti la stessa cosa si potrebbe dire rispetto alla comunicazione e al marketing delle aziende. Inoltre credo sia naturale decidere di aspettare che “passi la buriana” (il rischio semmai è che, perseguendo tattiche troppo attendiste, si possa morire prima che la “buriana” sia effettivamente passata).
Cosa dobbiamo fare noi organizzazioni non profit? Dovremmo forse tagliare i nostri programmi di corporate fundraising?
Corporate fundraising: dall’azienda all’individuo in relazione con essa
Personalmente non credo che questo sia necessario. Tuttavia occorre certamente ripensarli. Queste considerazioni le faccio anche alla luce del confronto che facciamo con gli uomini d’azienda nel nostro Laboratorio di corporate fundraising.
Una prima idea è quella di considerare l’azienda come un soggetto da network fundraising. In questa maniera il soggetto su cui si fa raccolta fondi non è l’azienda ma un individuo che è in relazione con questa. In questo caso il target di fundraising potrebbe essere costituito dai dipendenti, per esempio con le tipiche operazioni di payroll giving. In alternativa si possono considerare la rete dei clienti così come quella dei venditori.
Questo tipo di operazioni possono essere molto vantaggiose per un’organizzazione in quanto portano soldi e contatti, mentre spesso la sponsorizzazione secca porta solo soldi. Inoltre i donatori possono evidentemente essere inseriti in un ciclo di vita del donatore e alla lunga alcuni di essi potrebbero anche divenire grandi donatori e target da lasciti testamentari.
Inutile dire che situazioni come questa per l’azienda hanno costi molto più bassi e che, anzi, in alcuni casi sono pressoché a costo zero. A questo aggiungo che, là dove l’operazione di fundraising sui clienti vada a buon fine, è molto più probabile una successiva donazione da parte dell’azienda.
Team building e volontariato d’impresa
Una cosa su cui invece mi sento di premere molto riguarda il volontariato d’impresa. Sono sempre di più le aziende che investono in attività di team building. Se qualcuno di voi non sa cosa sono, gli basti pensare a quelle attività che una volta vedevamo solo nei film americani: corsi di sopravvivenza per i dipendenti e tanto altro.
Una volta queste cose ci facevano sorridere, ma ormai anche le nostre aziende investono molto in questo ed è proprio in tale settore che vedo le maggiori opportunità per le nostre amate organizzazioni. Il team building nell’ambito delle risorse umane è un insieme di attività formative, ludiche, esperienziali o di benessere (variamente definite come team game, team experience, team wellbeing), il cui scopo è la formazione di un gruppo di persone.
Credo che molte delle attività delle organizzazioni non profit possano rispondere a questo bisogno. Spesso, poi, le organizzazioni hanno al proprio interno anche le competenze per valutare gli impatti di un tale tipo di programma su un gruppo di lavoro.
E qui si parla di un budget completamente diverso rispetto a quelli destinato alla responsabilità sociale d’impresa e che spesso hanno anche quelle aziende che non dispongono di programmi e budget in tal senso.
Qualcuno ha esperienze di questo tipo?
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