Testo

Fund raising senza valore aggiunto. Necessario, forse, ma non per forza giusto.

Raccolta fondi per la benzina della polizia

Fino a qualche anno fa l’accoppiamento fra fundraising e Polizia di stato non era  immaginabile e, a ben pensare, nemmeno tra raccolta fondi e scuola, riparazione delle strade, sanità e tanti altri servizi che fanno parte del nostro buon vecchio welfare state.

Ormai l’uso del fund raising da parte di pezzi disastrati del welfare state è stato ampiamente sdoganato. E questo è un fatto buono perché prima o poi il fund raising andrà integrato nelle strategie economiche del welfare. Certo in tutt’altro modo rispetto a quello che si sta usando adesso.

È il caso, tra i tanti, della raccolta fondi per comprare la benzina necessaria a far marciare le volanti della polizia. Il caso del sindacato di polizia di Genova è solo uno ma ve ne sono molti altri in rete.

Che sia un caso di fund raising, non c’è dubbio. Che sia atipico, anche.

Seguendo la logica delle strutture fondanti del fund raising

Ripercorriamo il caso attraverso alcune delle strutture fondanti del fund raising:

  • Causa sociale;
  • Progetto specifico;
  • Organizzazione;
  • Scambio con il donatore.

La causa sociale sarebbe quella di mantenere uno standard almeno passabile del nostro welfare (nella fattispecie la sicurezza dei cittadini).

Il progetto sarebbe (è evidente) quello di dare benzina alle volanti che sono necessarie per la sicurezza dei cittadini.

L’organizzazione appare poco chiara. I soldi vengono chiesti dal sindacato (di cui il donatore non fa parte) a favore di un soggetto, lo Stato, che versa in cattive condizioni e non può sostenersi. Quasi un’organizzazione filantropica… a favore di un soggetto svantaggiato!

Lo scambio con il donatore sarebbe tra denaro, da un lato, e sicurezza per la comunità e in ultima istanza anche per il cittadino donatore, dall’altro. Ma anche forse il senso dell’indignazione per un Paese che va a rotoli e quindi l’appartenenza a quella maggioranza di cittadini che intende dare una svolta a tutto questo. Tuttavia non si capisce bene dove vado a mettere i soldi: in un conto della PS?  Se così fosse starei dando per una seconda (o terza) volta i soldi allo Stato per la stessa ragione.

Al di là del fatto che i poliziotti hanno ragione da vendere nel protestare contro questo stato di cose, sarebbe paradossale che il beneficiario della campagna fosse lo Stato, proprio quello Stato che non ha saputo gestire le mie precedenti “donazioni”.

Il fatto che il Sindacato di Polizia a Genova abbia inventato l’Obbligazione per avere maggiore sicurezza (una sorta di fac-simile di certificato azionario) non cambia la questione. È senza dubbio un’idea molto efficace dal punto di vista comunicativo e simbolico ma, paradossalmente, è una grande presa per i fondelli: quell’obbligazione che segna il mio volere di dare i soldi alla polizia per mettere benzina in verità non dà a me nessun potere reale. Il risultato quindi sarebbe quello del cornuto e mazziato: do i soldi con le tasse, essi li usano male, li ridò un’altra volta con il fund raising, ma in cambio non mi danno potere relativamente alla buona causa per la quale li ho dati.

Un fundraising a metà?

Insomma un fund raising a metà. Ci sono solo la parte economica, relativa al fatto che servono soldi per qualcosa di necessario, e “comunicativa” perché grazie al fund raising abbiamo sensibilizzato.

Manca la parte “politica”, ossia il ruolo del donatore e dell’organizzazione e soprattutto il legame tra la donazione e il valore aggiunto che essa produce per la società. Perché il fund raising deve prevedere che il donatore abbia la possibilità reale di essere un cittadino attivo. Altrimenti è elemosina.

Resto dell’opinione che noi la benzina delle auto l’abbiamo già pagata con le tasse. Evidentemente è l’organizzazione che ha gestito questi soldi (lo Stato) che deve dirci qualcosa in merito. Se ci dice che non è possibile mettere benzina alle volanti con le nostre tasse allora ci deve dire un modo “non profit” di gestire la polizia, in cui però il donatore deve avere un ruolo riconosciuto e attivo. Altrimenti non è fund raising ma è elemosina e a favore di un soggetto, lo Stato, che (permettetemi la franchezza) proprio non ha bisogno di questo. O peggio, è un ricatto, da parte di chi per dare un servizio dovuto dice che questo è possibile se paghi: altrimenti (come si dice a Roma) t’attacchi!

Dico questo per evitare che in questo momento di crisi economica il fund raising diventi uno strumento “jolly” buono per fare notizia: sia nel senso che è un segno di protesta, sia perché serve a tappare i buchi dello Stato dandosi anche un’immagine di moderna solidarietà sociale, sia perché rianima la nostra vecchia cultura della carità (che in momenti di povertà si propone come risposta sistemica a tutti i problemi). Un fund raising in cui il donatore resta comunque un convitato di pietra: tu sei qui per donare e basta: al resto ci pensiamo noi!

Personalmente, come fundraiser, mi aspetto molto di più dalla raccolta fondi e reputo questo modo di fare dannoso per il profilo della nostra disciplina. Forse l’Associazione dei fundraiser potrebbe dire qualcosa su questo e cercare di “regolare il traffico” (non fermarlo, per carità) in modo da salvaguardare i principi che fanno della nostra professione un cardine della futura sostenibilità della nostra società.

Cosa ne pensate?

Ps. Ne approfitto per ricordarvi di seguirci su Twitter!