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Ho intervistato Luca Pereno, Corporate Social Responsability manager – Coordinatore Sviluppo Sostenibile presso Leroy Merlin, il quale, oltre a raccontarci la CSR della sua azienda, dei progetti innovativi attraverso i quali la CSR di Leroy Merlin viene declinata, offre spunti interessanti per le organizzazioni nonprofit che volessero proporsi e sviluppare partnership e progetti.

In cosa si differenzia la CSR di Leroy Merlin nel contesto italiano?

“La volontà è quella di distinguersi da una CSR finalizzata al marketing, alla reputazione all’immagine dell’azienda. Il nostro sforzo è quello di andare oltre. Oltre al semplice rispetto della legge, oltre al fare comunicazione, ma soprattutto oltre a realizzare progetti. La volontà è infatti quella di lavorare sui processi.

Come abbiamo detto in occasione del nostro Green Day, andare oltre significa trasformare un progetto in processo. Un progetto ha un inizio e una fine, un processo ha un’evoluzione, una crescita, un consolidamento. Andare oltre significa porsi sempre nuovi obiettivi, cercare di innovare, alzare l’asticella in una sfida che si gioca in un mercato in continuo e rapido cambiamento. Ma la vera innovazione, in un’epoca di sharing economy, è scegliere di non gestire il cambiamento da soli ma insieme ai propri collaboratori, attraverso il confronto con gli stakeholders, grazie all’ascolto della comunità.

In sintesi penso quindi che siano due le parole che indicano le nostre azioni: oltre e condivisione.

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La Kumpania Scampia

Ho sempre pensato che la strada per l’inclusione sociale non possa essere soltanto una lotta durissima contro etichette e barriere. Per quanto indispensabile, questo non è sufficiente.

Non voglio essere fraintesa. In momenti preoccupanti come questo, dove imperversano le conseguenze di Mafia Capitale e dove il Matteo Salvini di turno può permettersi di fare pubblicamente affermazioni agghiaccianti, razziste e al limite del ridicolo sulle comunità Rom e di migranti, la denuncia di episodi di razzismo, xenofobia e intolleranza è un dovere etico e politico imprescindibile. Ma denunciare non basta.

“Disagio”, “esclusione”, “discriminazione” sono parole potenti, importanti, ma l’esaltazione della diversità e di condizioni problematiche, per quanto legittima e necessaria, è un’arma a doppio taglio che rischia di ingabbiare le persone in definizioni e categorie ristrette, se ci fermiamo qui.

E questo rischio lo corriamo in primo luogo noi che lavoriamo nel sociale, se non siamo capaci di andare oltre ed elaborare soluzioni tangibili che superino la rigidità delle definizioni e un’ottica meramente assistenzialista, che vadano a risolvere un problema comune ad una collettività che vive sullo stesso territorio, se pur costituita da gruppi variegati, e che puntino sulla diversità come fattore di arricchimento e forza, più che di divisione.

Certo, è più facile a dirsi che a farsi, ma gli esempi di chi ci prova con convinzione, professionalità e perseveranza, ottenendo risultati positivi, esistono, e non bisogna guardare soltanto all’estero per trovarli.

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“Ciao, ti è arrivato il mio messaggio?”

Nell’ultimo mese ho sentito rivolgere questa domanda per tre volte. Due volte mi è stata posta personalmente; la terza volta l’ho sentita fare a un passante prima di essere “abbordato” a mia volta. Dopo quest’ultimo episodio e il modo in cui sono stato trattato, non ho resistito e ho deciso di andare un po’ fuori tema rispetto al mio consueto, provare a riflettere e sentire il vostro parere.

Vi spiego. A farmi questa domanda sono stati giovani dialogatori di grandi organizzazioni non profit (una in realtà rappresentava l’ufficio italiano di un’agenzia delle Nazioni Unite). Dopo essere stato fermato due volte per strada credendo proprio che qualche mio conoscente mi stesse chiamando, la terza volta è capitato mentre aspettavo l’ascensore di un edificio pubblico per recarmi (di corsa, come spesso mi capita) a una riunione di lavoro.

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A Berlino è nata la Birra di Quartiere: Quartiermeister, oltre che il marchio della birra, è il nome di un’impresa sociale che eroga profitti, tramite un’associazione, a progetti di promozione del territorio. Chiunque può presentare i propri progetti e, forse, vederli finanziati. Dalla prospettiva del cittadino-consumatore, la birra solidale offre un grande beneficio: rispetto agli altri prodotti, permette di tutelare la propria città e il territorio circostante. Genera occupazione e attiva l’economia locale, trattenendo risorse che, nel caso peggiore, potrebbero finire a una società quotata in un lontano paradiso fiscale.

L’idea non è nuova: la birra trappista è un prodotto di raccolta fondi per le comunità cistercensi ormai tradizionale, imprese sociali che distribuiscono parte dei ricavi esistono già e lo sarebbero banche e casse di risparmio italiane con le loro fondazioni. Non è nemmeno nuova l’idea del prodotto a km 0 che si va diffondendo nella nostra cultura. L’aspetto più interessante di Quartiermeister, tuttavia, è la combinazione di aspetti diversi: l’uso di un prodotto di consumo comune come strumento di raccolta fondi, la nascita “dal basso” del progetto da parte di liberi cittadini, il forte legame territoriale, la vocazione sociale. Ma ciò che più spicca è la natura imprenditoriale “pura”, associata all’ambizione di stare sul mercato senza sconti e senza violare le regole della concorrenza e imparando la lezione del marketing sociale.

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Cara Agenzia delle Entrate,

come saprai sono passati più di 600 giorni da quando i nostri donatori hanno destinato il loro #‎5×1000‬‬ del reddito alle organizzazioni del #‎terzosettore‬ , ma non sappiamo ancora quanto nel complesso hanno devoluto a noi. E non sapremo mai, nonostante le nostre ripetute richieste, chi sono e dove stanno.

1 giorno per fare la donazione e 600 giorni per conoscere le #‎liste‬ e i risultati.

È un ritardo ingiustificabile sotto ogni aspetto. E soprattutto un ritardo che produce un danno enorme non solo per noi ma soprattutto per le cause che sosteniamo e per i beneficiari della nostra azione sociale. Cause e beneficiari che evidentemente non possono fare affidamento solo sull’intervento pubblico e per i quali il nostro ruolo è essenziale.

D’altro canto è proprio lo Stato che, dalla Costituzione in poi, fino ad arrivare alla riforma del nostro settore, ha sempre affermato l’indispensabilità del nostro lavoro. Ma una cosa è affermarla e altra cosa è sostenerla concretamente.

Ci è piaciuto lo slogan di Matteo Renzi: “Il Terzo settore, in verità è il Primo settore!”. E ci ha fatto anche sperare e “volare alto”. Ma i fatti, almeno quelli che dipendono dalla macchina burocratica e amministrativa ci hanno fatto tornare con i piedi per terra in modo crudo e doloroso.

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In questo periodo è sui principali canali di comunicazione uno spot di raccolta fondi per combattere la fame in Africa in cui si vede la classica immagine del bambino africano con la pancia gonfia.

Io continuo a chiedermi: “Cui prodest?”. A chi giova questo tipo di comunicazione? Al beneficiario? Non credo. Mi sono immaginata il bambino della foto tra dieci anni… uscito da quella situazione drammatica, con un lavoro, un’istruzione, una famiglia e che per molte persone sarà sempre il bambino con la pancia gonfia, anche se lui è diventato altro.

Al fundraising? Anche qui non credo. Qualcuno potrà obiettare: “Però hanno raccolto moltissimi soldi”. Ottimo! E la relazione con il donatore? È di tipo emergenziale? Ovvero il donatore dà i soldi solo perché vede il bambino con la pancia gonfia? E questo lo rende un donatore costante?

Mi sono messa nei panni del donatore e ho pensato: “Se continuate a far vedere il bambino con la pancia gonfia la vostra azione forse non è così efficace”.

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Vorrei allontanarmi, seppure momentaneamente, dall’arena propria della raccolta fondi, i soldi, per fare qualche riflessione sulle cosiddette buone cause, ossia la ragione per la quale si danno soldi.

Per impegni professionali mi sto occupando di raccolta fondi per un’organizzazione che si occupa del tema della montagna. Sì, avete capito bene: per la montagna. Ma “quale cosa della montagna?” – vi domanderete – le frane, le catastrofi, le colonie in montagna per i bambini poveri, gli sport invernali per disabili, le associazioni di alpinisti……? Può darsi, ma l’oggetto del fundraising dovrebbe essere la montagna in quanto tale. Impossibile, si direbbe. E in effetti la prima domanda che mi sono posto come consulente è: “ma la montagna è una causa sociale?”, o meglio, “a quali condizioni la montagna può essere una causa sociale?”. Bella sfida…

Come ormai capita spesso, Internet viene in soccorso. Già sfiduciato in partenza, digito sul motore di ricerca “montagna mission fundraising”. Come per magia mi capita il sito di Aiuto Svizzero alla Montagna, organizzazione sociale comunitaria presente in tutta la Svizzera da tanti anni, che opera per migliorare la considerazione nei confronti della popolazione di montagna, accordando contributi finanziari affinché essa possa valorizzare lo spazio in cui vive per sé e i suoi ospiti.

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Una campagna di crowdfunding è una cosa. Una campagna di crowdfunding di successo è un’altra.

Sulle potenzialità del crowdfunding si dice molto e spesso se ne esalta la carica innovatrice. Il dibattito è sempre più approfondito e il numero delle piattaforme continua a crescere (nel nostro paese sono circa 60). Tutto bene.

Secondo i dati disponibili, in Italia fino a novembre 2012, su 8.819 progetti approdati sulle piattaforme di crowdfunding, ne sono stati finanziati 2.477 (più o meno il 28%); a maggio 2014, circa un anno e mezzo dopo, i progetti presentati erano 48.357, di cui solo 12.809 sono stati approvati e pubblicati. Di questi, 4.703 sono stati finanziati per intero. Ciò significa che meno del 10% dei progetti presentati in Italia riceve il contributo richiesto ai donatori del Web.

I dati possono essere interpretati come meglio si crede. Di certo c’è che aumentano le piattaforme e le campagne di crowdfunding e che gran parte di queste non ottengono il risultato sperato.

Non sta a me andare oltre in questa analisi. Quello che invece mi interessa e su cui penso di poter dare una risposta, sono gli aspetti di comunicazione on line e strutturazione della campagna nel campo del non profit.

Sì, perché sono convinto che molte campagne di crowdfunding potenzialmente vincenti sono disegnate in modo disastroso e raggiungono il solo traguardo di demoralizzare i fundraiser e le organizzazioni.

Spesso nel predisporre una campagna di crowdfunding non si tengono in conto le 5 regole d’oro descritte da Massimo Coen Cagli su Vita.

In molti casi, pur avendo a mente tali regole, si agisce in modo superficiale o non si fa il massimo degli sforzi per presentare al meglio il progetto da finanziare.

In fin dei conti, il donatore sceglie anche in base all’immagine e alla consistenza che il nostro progetto riesce a trasmettere tramite lo schermo. Personalmente non donerei a un’organizzazione che presenti le cose senza troppi dettagli o che non mi dia il massimo delle garanzie.

Una volta chiariti potenzialità, limiti e meccanismi del crowdfunding e dopo aver scelto la piattaforma più adatta al progetto da finanziare, dovremo fare il massimo per rendere la campagna vincente. Ci sono una serie di azioni che, nei limiti delle possibilità della nostra organizzazione, dovremo mettere in atto quando disegneremo la nostra campagna.

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